Pubblicato il provvedimento applicativo dell’Agenzia dell’Entrate e per decreto legge slitta la scadenza: primo versamento entro il 16 marzo, dichiarazione entro aprile Con un provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, pubblicato il 15 gennaio 2021, e disponibile sul sito dal 19 gennaio, sono state definite le regole e modalità applicative dell’imposta sui servizi digitali, che prevede un’aliquota del 3 per cento sui ricavi derivanti da determinati servizi digitali realizzati da soggetti esercenti attività d’impresa. Il provvedimento tiene conto delle osservazioni ricevute dagli operatori tramite la consultazione pubblica conclusasi a dicembre, alla quale CRTV ha contribuito all’interno di un documento presentato da Confindustria il 30 dicembre scorso.
Sul sito dell’agenzia sono pubblicati il testo del provvedimento del 15 gennaio 2021, comprensivo di due allegati (prospetti contabile delle informazioni sui ricavi e sugli elementi quantitativi per calcolare l’imposta e nota esplicativa di tali elementi) e i 41 contributi alla consultazione pubblica per i quali non è stata espressa richiesta di non divulgazione.
Con decreto legge 3/2021 (Misure urgenti in materia di accertamento, riscossione, nonche’ adempimenti e versamenti tributari) pubblicato in Gazzetta ufficiale n.11 del 15 gennaio 2021 è stato posposto il versamento della tassa 2020: “In sede di prima applicazione – si legge nell’articolo 2 del dl 3/2021 , l’imposta dovuta per le operazioni imponibili 2020 è versata entro il 16 marzo 2021 e la relativa dichiarazione è presentata entro il 30 aprile 2021”.
Il versamento dell’imposta sui servizi digitali del 2021 è in relazione ai servizi digitali prestati nel 2020. L’importo dei ricavi imponibili è dato dal prodotto dei ricavi totali per la percentuale di tali servizi collegata al territorio dello Stato e rileva la localizzazione dell’utente finale in Italia.
Come noto, l’ imposta sui servizi digitali, inizialmente regolamentata dai commi 35 e seguenti della legge 145/2018, che avrebbe necessitato di un decreto ministeriale per entrare in vigore, di fatto è stata introdotta solo con la successiva legge di bilancio. Si ricorda che suo obiettivo primario è introdurre una tassazione sui ricavi che le big tech realizzano in Italia in un’ottica di equità fiscale.
Secondo le stime “pre Covid” l’imposta avrebbe dovuto portare 708 milioni di euro all’erario. L’importo potrebbe essere rivisto alla luce della crisi indotta dalla pandemia, che tuttavia ha portato ad un inatteso sviluppo dell’ambiente online e un diverso sentiment verso la sperequazione che danneggia gli operatori nazionali. Al riguardo si segnala che la Regione Piemonte, ha promosso una proposta di legge al Parlamento al fine di innalzare al 15% l’aliquota dell’imposta (attualmente al 3%), aliquota che potrebbe essere ulteriormente aumentata al 30% limitatamente ai periodi di emergenza.
Situazione internazionale. Il Sul tema della tassazione dell’economia digitale si è mossa sia la UE, che ha presentato una serie di proposte, sia l’OCSE, a livello multinazionale, all’interno della strategia per il BEPS (Base Erosion Profit Shift). Alla chiusura dell’ultima consiliatura UE, l’Europa, non trovando un accordo politico sulle proposte, aveva rimandato all’ambito OCSE, preferibile per l’ampiezza dei Paesi coinvolti. Nel frattempo, diversi Stati, fra cui in Europa, Francia, Italia hanno adottato delle norme sostanzialmente allineate con la proposta UE, sottoposte a una forma disapplicazione automatica (sunset clause) in attesa di norme sovranazionali in materia. Il Covid da un lato ha rallentato le negoziazioni OCSE, dall’altro ha reso più urgenti interventi in materia (si v. articolo). Un altro aspetto critico a livello internazionale è l’avversione del Governo USA verso questa forma di tassazione, già dimostrata lo scorso anno nei confronti della Francia, minacciata di ritorsioni commerciali. Il 6 gennaio scorso il Governo USA ha pubblicato un report, al termine di una investigazione avviata a giugno 2019 da parte della Sezione 301 in cui si afferma, tra l’altro che “la Dst italiana è irragionevole perché non corrisponde ai principi della tassazione internazionale” e “opprime o restringe il commercio americano” poiché “43 aziende o gruppi potrebbero essere colpiti dalla Dst e di queste 27 sono degli Stati Uniti, tre italiane e le altre 13 di altri Paesi”. La discriminazione – il 62% delle aziende sono americane, ha fatto assimilare la tassa italiana a quelle simili adottate da Turchia e India. Ma tuttavia le norme fiscali sotto disamina da parte del governo USA aumenta di giorno in giorno, come mostrano i report appena pubblicati, per la sola Europa ad Austria, Spagna e UK del 14 gennaio 2021 (si v. link).