3% di imposte per imprese con ricavi complessivi non inferiori a 750 milioni e ricavi derivanti da servizi digitali (pubblicità, scambio di beni e servizi, dati) non inferiori a 5,5 milioni: questi in sintesi i contenuti della norma relativa alla web tax italiana inserita nel maxi-emendamento alla Legge di Bilancio. Con questa norma l’Italia anticipa quanto emerso in sede UE, dopo lunghe concertazioni, purtroppo solo a livello di orientamento politico, e si allinea con la posizioni di altri Paesi (di recente la Francia, ma anche Regno Unito e Spagna) per recuperare l’eluso al fisco dalle multinazionali del Web. CRTV fin dai tempi delle prime proposte di legge in materia ha richiesto, nelle more della concertazione internazionale (OCSE) e UE, un intervento ponte che permetta di recuperare base imponibile in un’ottica di equità della contribuzione fiscale e di parità di concorrenza con gli OTT. La norma supera una disposizione simile per obiettivi approvata nella precedente legge di bilancio ma mai applicata per mancanza di decretazione attuativa. Anche in questo caso la nuova imposta, dalla quale il Governo conta di ottenere 150 milioni di euro nel 2019 e 600 a partire dal 2020: le stime sono basate sulla valutazione di impatto della UE, misura temporanea, parametrate sul PIL italiano (quota su PIL UE) e arrotondate per ricomprendere i ricavi da trattamento di dati. Anche tale misura necessiterà di un decreto attuativo del Mef di concerto con Mise–Agcom-Garante Privacy e AgID, da emanarsi entro 4 mesi ;e sarà applicabile solo dopo 60 giorni dalla pubblicazione dello stesso in Gazzetta Ufficiale, ossia non prima del giugno 2019. Per le imprese è previsto il versamento della tassa su base trimestrale (entro il mese successivo alla chiusura di ciascun trimestre e alla presentazione della dichiarazione annuale dell’ammontare dei servizi tassabili prestati (entro 4 mesi).
Come noto a livello UE a partire dall’autunno 2017 (vertice di Tallin) si sono susseguite una serie di iniziative volte a recuperare la base fiscale erosa nella UE ad opera dell’elusione dei grandi operatori della Rete, apolidi fiscali o con residenza in Paesi a fiscalità agevolata, e comunque beneficiari di una sorta di impunità normativa legata alla nozione, ormai superata, di stabile organizzazione a fini fiscali. Su stimolo del Consiglio la Commissione UE ha proposto nel mese di marzo 2018 una strategia declinata in un intervento provvisorio (imposta sui ricavi generati) e uno strutturale legato, fra l’altro, all’introduzione di una definizione di stabile organizzazione che permetta di tassare gli utili dove questi sono generati; tale proposta qualora sostenuta da una forte maggioranza di sostegno avrebbe potuto imporsi, con il peso del mercato unico continentale, o dei maggiori Stati Membri, come best practise a livello internazionale; ma tale accordo politico si è arenato su questioni quali il perimetro tassabile, gli organismi UE sono a fine legislatura e pertanto alcuni Paesi, Spagna, Francia, Regno Unito e ora Italia, stanno procedendo unilateralmente.
In Francia il Ministro delle Finanze Le Maire ha proposto una norma analoga tassazione dei ricavi generati “dalla pubblicità, dalle piattaforme e dalla vendita di dati personali” oltre determinate soglie di ricavi, già dal 1 gennaio 2019: introiti stimati per l’erario d’oltralpe 500 milioni di euro all’anno. Nel Regno Unito a fine ottobre nella legge di bilancio è stata presentata una «tassa sui servizi digitali» mirata a recuperare dalle multinazionali del web, a regime, circa 400 milioni di sterline all’anno di gettito atteso. L’annuncio dell’introduzione di questa disposizione sarà operativa dal 2020 è stato dato dal Ministro delle finanze che ha assicurato anche che la misura sarà attentamente progettata per garantire che siano i colossi tecnologici affermati e non le startup tecnologiche a pagarla. Si ricorda che il Regno Unito è stato il primo mercato ad introdurre nell’aprile 2015 una tassazione diretta dei profitti elusi, la Diverted Profit Tax, che stima i profitti generati in un Paese applicando ad essi un’aliquota del 25% (+ 5 punti percentuali rispetto all’imposta sulle società standard). La novità di questa corporate tax è che stima i profitti generati sul territorio inglese e deviati (attraverso meccanismi leciti di transfer pricing all’interno dell’azienda e trasferimento a sedi in Paesi con fiscalità più bassa o nulla, i c.d. paradisi fiscali) con l’inversione dell’onere della prova.
In Spagna un’imposta sui servizi digitali era apparsa nella legge di bilancio 2018 ed è rientrata nella nuova manovra prevista per il 2019. La digital service tax (DST) ha caratteristiche analoghe: prelievo del 3% sui ricavi lordi mondiali (750 milioni di euro) e 3 milioni di euro dalle attività soggette al DST effettuate in Spagna e derivanti da: vendita di spazi pubblicitari online; attività di intermediazione digitale; vendita di dati generati da informazioni fornite dall’utente.
L’imposta che è stata proposta dal governo italiano a Bruxelles tra le misure di aggiustamento della manovra di Bilancio rispetto al passato prevede l’allargamento del perimetro di azione dell’imposta ai big data allineandosi alla soluzione transitoria presentata dalla Commissione europea (imposta temporanea sui ricavi da attività digitali applicabile a ricavi globali sopra i 750 milioni di euro e ricavi nell’Ue di almeno 50 milioni di euro) allineandosi alle altre realtà nazionali.
La web tax del Governo italiano si applica a tre tipologie di attività: pubblicità mirata agli utenti della rete on line. Al riguardo, come noto le multinazionali del web online raccolgono già oltre il 75% degli investimenti pubblicitari online e il 90% della crescita di tai investimenti (dati elaborati di recente anche da IAB Italia), che oramai sono assurti a secondo mezzo pubblicitario dopo la televisione. CRTV aveva sollevato il problema con stime proprie già in occasione dell’Audizione sul decreto Mucchetti introduttivo di misure per ristabilire la concorrenza fiscale.
Non entriamo nel tema della fornitura di servizi venduti su piattaforme digitali, seconda attività tassabile, che secondo i detrattori soffre di una definizione troppo ampia che potrebbe ricomprendere anche i nuovi operatori della ristorazione come Deliveroo o Justeat o le piattaforme del turismo come Airbnb, Booking, o il marketplace di Facebook. Si teme che il prelievo possa ripercuotersi sulle piccole e medie imprese italiane che vendono, anche oltre confine, prodotti made in Italy e inibire l’innovazione ICT (Anitec/Assinform) senza una opportuna condivisione della definizione degli ambiti di applicazione. E che i costi della nuova imposta sulle aziende target (es. Google, Facebook e Amazon per i business relativi alla pubblicità e i marketplace Alibaba, Amazon o eBay) possano essere riversati sugli utenti.
Di certo la valutazione dei dati raccolti dagli utenti e generati dall’utilizzo sempre di un’interfaccia digitale è anch’esso più volte trattato da CRTV come cruciale asset economico, competitivo e strategico deve essere tenuto in conto. Il prelievo sembrerebbe colpire soltanto il B2B: sono quindi esclusi servizi come Netflix e Spotify, come invece era stato ventilato nei giorni scorsi.
Il ruolo della decretazione attuativa in questo senso sarà fondamentale.