Washington e 11 Stati contro Google per concorrenza sleale e pratiche scorrette nella ricerca e nella pubblicità online. “Oggi milioni di americani si affidano a Internet e alle piattaforme online nella loro vita quotidiana. La concorrenza in questo settore è di vitale importanza, motivo per cui la causa odierna contro Google, il guardiano di Internet, per aver violato le leggi antitrust è storica sia per il Dipartimento di giustizia che per il popolo americano”: con queste parole il procuratore generale William Barr ha accompagnato l’apertura della causa antitrust del governo USA e di undici Stati federati contro Google, la maggiore dopo quella contro la Microsoft di Bill Gates.
Ora come allora: Microsoft e le Baby Bells. La causa si avvia in un momento storico particolare, la vigilia delle presidenziali USA e l’emergenza Covid-19 in atto: ai tempi di Microsoft (1998-2002) gli sviluppi fondamentali (appello, Corte Suprema, mediazione) si sono intrecciati con gli impatti dell’11 settembre. Ora come allora la soluzione preconizzata sembra essere lo smembramento del colosso, come in tempi ancora precedenti gli Usa avevano fatto con successo con il gigante delle telco At&T, cosiddetto “Ma Bell”: allora correvano gli anni ’70, ma il monopolio nelle comunicazioni risaliva a fine ‘800 e numerose cause antitrust erano state intentate, fino appunto allo smembramento nelle 7 Baby Bells regionali. Nella causa civile antitrust intentata dal Dipartimento di giustizia contro Google sono 11 gli stati che si sono uniti attraverso i propri procuratori generali (Arkansas, Florida, Georgia, Indiana, Kentucky, Louisiana, Mississippi, Missouri, Montana, Carolina del Sud e Texas), ai tempi della causa Microsoft erano 19; l’accusa è la stessa, concorrenza sleale e pratiche scorrette, la base giuridica pure, lo Sherman Act di antica memoria: ma la montagna, proprio come nel caso di Microsoft (accordo) potrebbe partorire un topolino.
Quello che è certo è che il tema della dominanza dei grandi operatori internet è all’attenzione dei regolatori anche in Europa, dove sono 3 le cause antitrust condotte contro Google a livello di Unione – due per abuso di posizione dominante (2019, Ad Sense, multa comminata di 1,49 mld di euro; 2017, acquisti comparativi, 2,42 miliardi di €), una per pratiche illegali (dispositivi mobili Android, 2018, 4,34 miliardi di €), diverse quelle a livello nazionale (fra le ultime, si segnala l’ indagine AGCM sul cloud di Google e altri operatori). In gioco, oltre alla tutela dei consumatori, della concorrenza, dell’equità fiscale, e dei diritti fondamentali (es. privacy) c’è l’innovazione e lo sviluppo, attuale e potenziale, dell’economia dei big data alla vigilia dell’introduzione di nuove tecnologie abilitanti la connessione ad altissima velocità su dispositivi fissi e mobili, e nuove applicazioni quali l’intelligenza artificiale e l’Internet delle Cose (IoT). La posta è altissima, come non ha mancato di sottolineare CRTV nelle recenti consultazioni europee su DSA, e i tempi sono stretti per ristabilire un livellato campo di gara per le aziende italiane ed europee. Il tema è inoltre all’attenzione di diverse autorità – si v. per es. i dati del recente Osservatorio sulla pubblicità online di AGCOM, che mostrano la scala e la pervasività delle dominanza degli OTT; o l’iniziativa della Competition Markets Authority-CMA britannica in esito al suo studio “Online platforms and digital advertising market” di creare un regime pro-concorrenziale contenitivo per le grandi piattaforme online.
Secondo il comunicato, Google, una delle aziende più ricche del pianeta con un valore di mercato di 1 trilione di dollari, “gatekeeper monopolistico di Internet” per miliardi di utenti e innumerevoli inserzionisti in tutto il mondo; per anni ormai ha rappresentato quasi il 90% di tutte le query di ricerca negli Stati Uniti e ha utilizzato tattiche anticoncorrenziali per mantenere ed estendere il proprio monopolio nella ricerca e nella pubblicità ad essa associata. Fra le pratiche anticoncorrenziali contestate si citano in particolare la stipula di accordi di esclusiva che vietano la preinstallazione di qualsiasi servizio di ricerca concorrente; accordi che impongono viceversa la preinstallazione delle applicazioni di ricerca Google in posizioni privilegiate e non cancellabili, indipendentemente dalle preferenze dei consumatori; accordi a lungo termine con Apple per Google motore di ricerca generale predefinito e, de facto, esclusivo. In generale si contesta di utilizzare i profitti di monopolio per acquisire un trattamento preferenziale per il proprio motore di ricerca su dispositivi, browser web e altri punti di accesso alla ricerca, creando un “ciclo di monopolizzazione continuo e auto-rinforzante”.
Nel testo del ricorso, 64 pagine, disponibile a questo link si segnalano in particolare i dati di background sul settore della ricerca e della pubblicità ad essa abbinata, l’importanza della scala del business, della distribuzione del motore di ricerca e delle sue installazioni di default, e il dettaglio per canali distributivi e accordi di distribuzione esclusivi (pp. 8-35).